Toy Story: Non c'è due senza tre...
Alla Pixar giocano a biliardo e biliardino, sfrecciano in monopattino, si sfidano a ping pong, fanno footing nella hall e mangiano ottimi cannelloni nella mensa aziendale. Nelle pause tra un passatempo e l’altro, realizzano capolavori. «I film sono i nostri giochi, gli incassi sono straordinari, vinciamo ogni Oscar e i critici ci definiscono dei geni. È la Golden Age». Parola di Guido Quaroni, 42enne pavese supervisore dell’animazione qui dal 1997, ora a capo di un team di 110 persone che costruiscono digitalmente ciò che vediamo nei cartoon. Siamo a Emeryville, San Francisco. Guido è solo uno dei tanti uomini felici che incontriamo in questo enorme capannone dal tetto in vetro dove la Pixar si è trasferita nel 2000, crescendo da 100 a 1000 impiegati.
Due anni e mezzo per realizzare un cartone, 250 persone a film, 3-4 opere contemporaneamente in sviluppo. Toy Story 3 è già storia. Il team è ora su Cars 2 e Monster & Co 2. Non ci saranno troppi sequel? «Non lo sappiamo!», ride il regista di Toy Story 3 Lee Unkrich: «Dopo il primo Toy Story dichiarammo che non avremmo fatto sequel... ed eccoci qua. Non escludo ci possa essere un Toy Story 4». Ok. Ma ricominciamo dal 3. La Pixar, di fatto, è «la casa che Woody e Buzz hanno costruito» con il successo pionieristico del 1995. Ancora Guido: «Nei primi anni c’era Steve Jobs che firmava in prima persona gli assegni e forse pensava: “Ma chi me lo fa fare?” Perché la Pixar andava male. Lui la comprò nel 1988, voleva venderla, ma nel 1992 fece l’ultimo tentativo: Toy Story. Arrivata al terzo capitolo, la comunità di giocattoli capeggiata da Woody e Buzz affronta una grande avventura: «La scelta», racconta Unk-rich, «il cambiamento. Il bambino che ha giocato con loro va al college. I giocattoli conosceranno nuovi giocattoli e compieranno scelte morali». Come, ad esempio, decifrare l’enigmatico Ken, incontrato in un asilo infantile. Un giocattolo sessualmente ambiguo. Le famose doppie letture Pixar? «Ken non è un travestito!», quasi urla Unkrich. «È un giocattolo maschio usato dalle ragazzine. Come si può sentire? Quali possono essere le sue frustrazioni? In fondo è un accessorio di Barbie. Quindi siamo arrivati alla conclusione che potesse essere insicuro, vanitoso e frivolo». E con i tacchi a spillo. Chi poteva immaginare che il Rocky Horror Picture Show avrebbe influenzato l’animazione mainstream...
E Osvaldo Cavandoli? «Ma sì certo, lo conosco!», ammette raggiante Teddy Newton, autore del corto Day & Night che introduce Toy Story 3. In questo gioiello misto 2D e 3D due creature che rappresentano il giorno e la notte prima litigano, poi danzano insieme, e ricordano la linea inventata da Cavandoli e diventata un mito con gli spot Lagostina. Newton ci dà ragione. «A un livello inconscio mi devo essere ispirato a lui, perché conosco bene il suo lavoro e adoro quel suo personaggio. Peraltro io sono mezzo italiano, di Napoli. Newton è il futuro Pixar. Day & Night ha già fatto il botto (Lasseter lo adora) e il nostro sta già lavorando a un lungo con il Pete Docter di Up. Segnatevi il suo nome.
La giornata in Pixar volge al termine. Giusto il tempo di fare un tour nella “Render Pharm” dove gli hard disk lavorano 24 ore su 24 per definire i fotogrammi, visitare il piano di disegni e modellini, chiacchierare con il responsabile 3D Bob Whitehill («Sarà delicato e non invadente»), comprare qualche gadget (bello l’orologio Ratatouille), farsi indicare l’ufficio di Lasseter, incrociare di nuovo Quaroni e provocarlo: «Dov’è il trucco? Non c’è!», ride. «Per il bene del film gli ego si mettono da parte. Nei credit finali di ogni film ringraziamo anche i cuochi della mensa. Se c’è un bonus aziendale, viene dato a tutti. Questa è la filosofia di Steve Jobs e John Lasseter». Ok. Non voglio più tornare a casa.