FILM, il mondo del cinema su Zlatan is Zlatan

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il LEO
view post Posted on 11/7/2010, 13:34     +2   +1   -1




Toy Story 3 - La grande fuga

Titolo originale Toy Story 3. Animazione, Ratings: Kids, durata 103 min. - USA 2010. - Walt Disney uscita mercoledì 7 luglio 2010

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Andy è in partenza per il college, sta svuotando la sua stanza e la madre lo obbliga a scegliere che fare dei vecchi giocattoli. Loro, i giocattoli, già conoscono il proprio destino, da anni Andy non gioca più come lo vediamo fare nella fenomenale sequenza d'apertura (un gioiello di racconto caotico infantile), volubili come sono però rimangono offesi dal trattamento riservatogli e quando un malinteso li fa finire nello scatolone destinato all'asilo di Sunnyside prendono l'evento di buon grado. Solo Woody, testardo, irriducibile e affezionato, continua a credere che il loro posto sia con il padrone. Gli altri lo capiranno quando scopriranno come in realtà Sunnyside sia una prigione dalla quale è impossibile evadere, gestita con pugno di ferro da una congrega di giocattoli feriti dall'abbandono dei propri padroni.
Ancora una volta un road movie, l'impianto che sottende quasi ogni film dello studio di John Lasseter, ovvero la riconquista del proprio spazio vitale e di un nuovo equilibrio attraverso un clamoroso quanto improbabile "ritorno", compiuto per amore di qualcuno. Un viaggio che come sempre è anche movimento interiore e la cui imponente distanza è metafora dei sentimenti che agiscono quegli esseri minuscoli inseriti in spazi immensi. Woody e compagni già erano tornati a casa per ben due volte attraversando distanze impensabili per un giocattolo, questa volta devono anche evadere da un asilo che di notte diventa un carcere (bellissimo come elementi che di giorno hanno un senso con l'illuminazione notturna sembrino parti di una galera).
Potendosi permettere il lusso di non dover introdurre dei personaggi già noti il film si concentra sui nuovi comprimari, tutti dotati di personalità in linea con il genere carcerario (tranne Ken e Barbie straordinari outsider a modo loro), e affronta con più complessità la mitologia della serie, cioè quale sia il rapporto dei giocattoli con i propri padroni. Devono rimanergli accanto a tutti i costi? Possono ribellarsi? Hanno diritto a sentirsi feriti? La Pixar sembra sostenere di no, parteggiando a prescindere con i bambini e non con i protagonisti.
Al terzo film la serie di Toy story invece che afflosciarsi si dimostra ancora vitale, anche in virtù della maturità sempre maggiore dello studio di produzione, forse abbiamo visto film Pixar più solidi di questo ma dal punto di vista visivo si toccano nuove vette utilizzando le innovazioni raggiunte nelle opere precedenti come la ormai piena padronanza (tecnica ma anche espressiva) di diverse tipologie di filtri che scimmiottano gli obiettivi delle macchine da presa come si vede nelle scene di caos infantile all'asilo.
Nonostante sia parlato Toy story 3 è un film che comunica quello che conta solo visivamente, capace di smuovere lo spettatore con un raggio di sole al tramonto che entra dalla finestra o con lo sguardo colmo di sentimenti complicati, oscillanti tra paura e solidarietà, di un personaggio digitale posto di fronte alla sua ineluttabile fine, mano nella mano con i propri compagni. Sembra straordinaria abilità recitativa ma è in realtà scrittura per immagini e musica, non si tratta dell'espressività di sintesi di cui sono capaci i computer Pixar ma del culmine narrativo raggiungibile di un arte audiovisuale che non abbisogna di parole.
Portate i fazzoletti.

 
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Berny™
view post Posted on 11/7/2010, 14:26     +1   -1




l'ho visto

bellissimo xD
 
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il LEO
view post Posted on 17/7/2010, 09:46     +1   +1   -1




Toy Story: Non c'è due senza tre...

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Alla Pixar giocano a biliardo e biliardino, sfrecciano in monopattino, si sfidano a ping pong, fanno footing nella hall e mangiano ottimi cannelloni nella mensa aziendale. Nelle pause tra un passatempo e l’altro, realizzano capolavori. «I film sono i nostri giochi, gli incassi sono straordinari, vinciamo ogni Oscar e i critici ci definiscono dei geni. È la Golden Age». Parola di Guido Quaroni, 42enne pavese supervisore dell’animazione qui dal 1997, ora a capo di un team di 110 persone che costruiscono digitalmente ciò che vediamo nei cartoon. Siamo a Emeryville, San Francisco. Guido è solo uno dei tanti uomini felici che incontriamo in questo enorme capannone dal tetto in vetro dove la Pixar si è trasferita nel 2000, crescendo da 100 a 1000 impiegati.

Due anni e mezzo per realizzare un cartone, 250 persone a film, 3-4 opere contemporaneamente in sviluppo. Toy Story 3 è già storia. Il team è ora su Cars 2 e Monster & Co 2. Non ci saranno troppi sequel? «Non lo sappiamo!», ride il regista di Toy Story 3 Lee Unkrich: «Dopo il primo Toy Story dichiarammo che non avremmo fatto sequel... ed eccoci qua. Non escludo ci possa essere un Toy Story 4». Ok. Ma ricominciamo dal 3. La Pixar, di fatto, è «la casa che Woody e Buzz hanno costruito» con il successo pionieristico del 1995. Ancora Guido: «Nei primi anni c’era Steve Jobs che firmava in prima persona gli assegni e forse pensava: “Ma chi me lo fa fare?” Perché la Pixar andava male. Lui la comprò nel 1988, voleva venderla, ma nel 1992 fece l’ultimo tentativo: Toy Story. Arrivata al terzo capitolo, la comunità di giocattoli capeggiata da Woody e Buzz affronta una grande avventura: «La scelta», racconta Unk-rich, «il cambiamento. Il bambino che ha giocato con loro va al college. I giocattoli conosceranno nuovi giocattoli e compieranno scelte morali». Come, ad esempio, decifrare l’enigmatico Ken, incontrato in un asilo infantile. Un giocattolo sessualmente ambiguo. Le famose doppie letture Pixar? «Ken non è un travestito!», quasi urla Unkrich. «È un giocattolo maschio usato dalle ragazzine. Come si può sentire? Quali possono essere le sue frustrazioni? In fondo è un accessorio di Barbie. Quindi siamo arrivati alla conclusione che potesse essere insicuro, vanitoso e frivolo». E con i tacchi a spillo. Chi poteva immaginare che il Rocky Horror Picture Show avrebbe influenzato l’animazione mainstream...

E Osvaldo Cavandoli? «Ma sì certo, lo conosco!», ammette raggiante Teddy Newton, autore del corto Day & Night che introduce Toy Story 3. In questo gioiello misto 2D e 3D due creature che rappresentano il giorno e la notte prima litigano, poi danzano insieme, e ricordano la linea inventata da Cavandoli e diventata un mito con gli spot Lagostina. Newton ci dà ragione. «A un livello inconscio mi devo essere ispirato a lui, perché conosco bene il suo lavoro e adoro quel suo personaggio. Peraltro io sono mezzo italiano, di Napoli. Newton è il futuro Pixar. Day & Night ha già fatto il botto (Lasseter lo adora) e il nostro sta già lavorando a un lungo con il Pete Docter di Up. Segnatevi il suo nome.

La giornata in Pixar volge al termine. Giusto il tempo di fare un tour nella “Render Pharm” dove gli hard disk lavorano 24 ore su 24 per definire i fotogrammi, visitare il piano di disegni e modellini, chiacchierare con il responsabile 3D Bob Whitehill («Sarà delicato e non invadente»), comprare qualche gadget (bello l’orologio Ratatouille), farsi indicare l’ufficio di Lasseter, incrociare di nuovo Quaroni e provocarlo: «Dov’è il trucco? Non c’è!», ride. «Per il bene del film gli ego si mettono da parte. Nei credit finali di ogni film ringraziamo anche i cuochi della mensa. Se c’è un bonus aziendale, viene dato a tutti. Questa è la filosofia di Steve Jobs e John Lasseter». Ok. Non voglio più tornare a casa.

 
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il Poltergeist
view post Posted on 7/9/2010, 16:19     +1   -1




20 sigarette

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Senza un lavoro fisso e disoccupato sentimentalmente, Aureliano Amadei sogna il cinema. Per il momento è un giovane filmaker vicino agli interessi dei centri sociali e lontano dalle responsabilità da adulto. Quando il cineasta Stefano Rolla gli propone il ruolo di assistente per un film da girare in Iraq, accetta la proposta, prepara frettolosamente i bagagli e si avvia a intraprendere la sua personale missione. Caso e sfortuna decidono il suo destino: il 12 novembre 2003 si troverà vittima dell'attentato terroristico di Nasiriyya. Rimarrà ferito ma abbastanza vivo da tornare in Italia per raccontare la sua storia.
Accettare che un ragazzo qualsiasi, dagli ideali ingenui e dallo sguardo scanzonato, sia coinvolto in un attacco terroristico, ci costringe a riflettere sul senso della missione italiana in Iraq. Non serve essere pacifisti per pensare che in quello strano mescolamento di disciplina militare dell'esercito e anarchia ideale di un aspirante artista sia accaduto qualcosa di indegno. La storia è vera; è talmente sentita che la regia risponde perfettamente alle esigenze di realismo dell'autore. Il tremolio delle riprese a camera a mano e l'immedesimazione costrittiva della soggettiva - scelta azzardata ma efficace – sono gli strumenti visivi adatti a restituire la tragicità del soggetto. Il risultato sorprende perchè la scelta rende corporee scene di rara crudeltà, evitando con intelligenza il rischio della retorica spettacolare tipica del piccolo schermo, così presente nei servizi giornalistici o nel finto cordoglio politico. Il legame emotivo tra spettatore e regista non si appoggia su banali trucchi di sceneggiatura ma è il risultato di un lavoro onesto che fa vibrare le corde dell'anima. E malgrado qualche chiarificazione di troppo, che si avvicina ad un'affettata didascalia da manuale (lo scontro con i militari in ospedale o la presentazione finale del libro), il film scorre sulla linea di un realismo ostinato che distrugge gli appigli di buonismo e propone l'annullamento della guerra in nome di una pace fatta, sì di contrasti, ma più vicina alla dignità delle persone.
La colonna sonora di Louis Siciliano accompagna l'andamento narrativo con un'accurata sovrapposizione di forma e contenuto: musiche smaliziate per la vita in centro sociale e ritmi più serrati e angoscianti per quella al campo militare. Le venti sigarette del titolo, fumate con disinvoltura dal convincente Vinicio Marchioni, bruciano lo scorrere del tempo. E insieme al fumo, mozzicone dopo mozzicone, prende corpo una consapevolezza rara che dimostra l'inutilità di un militarismo sfrenato. Riflessione scontata? Forse. Ma drammaticamente indispensabile.

 
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.BlackMamba®
view post Posted on 1/11/2011, 13:45     +1   -1




Le avventure di Tintin – Il segreto dell'Unicorno

locandina



 
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.BlackMamba®
view post Posted on 6/11/2011, 01:22     +1   -1




stasera ho visto TinTin, che dire, un vero piacere per gli occhi.
Mi sono divertito.
 
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il Poltergeist
view post Posted on 6/11/2011, 19:05     +1   -1




I soliti idioti

locandina



PRIMA JE FAI SENTI LA PRESENZA!!! E POI LA FAI SENTI NA ZOZZA.....CAPITO GIANLUCA? DAI CAZZOOOOOOOO
 
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.BlackMamba®
view post Posted on 7/11/2011, 10:23     +1   +1   -1




Vi presento i nostri

locandina




visto ieri sera a casa
mezzo flop
non mi è piaciuto
 
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.BlackMamba®
view post Posted on 17/11/2011, 12:02     +1   -1




A proposito di Schmidt

Titolo originale About Schmidt. Drammatico, durata 125 min. - USA 2002.

locandina



Warren Schmidt, un misantropo che ha speso una vita in una società di assicurazioni, all'età di 66 anni va in pensione. Potrebbe essere giunto il momento di godersela, ma la moglie Helen muore all'improvviso. Schmidt decide allora di andare a Denver, per tentare di convincere l'adorata figlia Jeannie a non sposare il fidanzato, un bellimbusto venditore di materassi ad acqua. Tutto andrà a rotoli: la figlia si sposerà, lui si troverà a vagare senza meta per gli States, e scoprirà persino che anni prima la moglie l'aveva tradito con il suo migliore amico; insperatamente, però, troverà un amico: un bambino nigeriano, adottato a distanza, a cui Schmidt affida i suoi pensieri, e che in cambio gli invierà un disegno. Dopo l'ottimo Election, Payne supera solo in parte il banco di prova del terzo film; ad un soggetto esile e provocatorio solo superficialmente, si contrappone peraltro la prova d'attore di Jack Nicholson che, da solo, rende la pellicola degna di essere vista. La caratterizzazione di Schmidt, borghese meschino e privo di sentimenti, non del tutto resa da una sceneggiatura priva di acuti, viene evidenziata da Nicholson senza il consueto gigioneggiare, ma piuttosto con continui e straordinari cambiamenti mimici. E le sue espressioni durante il discorso del pranzo di matrimonio della figlia sarebbero da studiare a memoria nelle scuole di recitazione.

 
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.BlackMamba®
view post Posted on 27/11/2011, 22:15     +1   -1




Too Big To Fail – Il Crollo dei Giganti

Titolo originale Too Big To Fail. Drammatico, durata 110 min. - USA 2011

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Nel 2008, in seguito al crollo della Bear Stearns, quinta società di credito bancario degli Stati Uniti d’America, anche la Lehman Brothers accusa profondamente gli effetti della crisi del mercato immobiliare e la bolla finanziaria sui mutui “subprime”. Di fronte al crollo verticale delle proprie azioni, l’amministratore delegato della compagnia Dick Fuld anziché vendere, si trincera dietro alla forza del proprio nome, impedendo sostanzialmente qualunque tentativo di svendita del gruppo. Inizialmente reticente a un intervento su scala nazionale, il segretario del Tesoro Hank Paulson, si trova costretto a fare da intermediario quando la Lehman si avvicina pericolosamente al fallimento. Nonostante le attente strategie politiche di Paulson, i tentativi di salvare la compagnia attraverso l’intervento di gruppi stranieri o americani vanno in fumo e nel settembre 2008 la Lehman Brothers dichiara bancarotta. Le conseguenze del fallimento di quello che solo fino a pochi mesi prima era uno più solidi operatori dei titoli di stato spezza in due l’opinione pubblica che, se da una parte elogia il tesoriere per non essere intervenuto con un finanziamento pubblico, dall’altra lo accusa di aver rivelato un’insanabile crisi pronta a disperdersi su tutte le borse occidentali.
Non è solo il neo-liberismo americano a mostrare le sue crepe ma anche il modello televisivo della HBO. Film per la tv dal solido impianto produttivo, miniserie interpretate da attori e caratteristi eccellenti, serie televisive dalla scrittura vivace e senza filtro: la popolare tv via cavo di proprietà della Time Warner ha notevolmente contribuito a elevare lo standard della drammaturgia televisiva americana. Purtroppo, ogni tanto questa aspirazione a un tipo di instant movie radicato nei temi della contemporaneità mostra anche le debolezze congenite della perfetta filiera della serialità americana.
Portatore sano dei pregi ma anche dei difetti di questo preciso meccanismo di drammaturgia in “presa diretta”, Too big to fail ricostruisce i momenti più salienti di quel crack datato settembre 2008 dal punto di vista politico e istituzionale di Henry “Hank” Paulson, con maggior preoccupazione di ottenere un realismo solido che di costruire un racconto espressivo.
Tratto da un romanzo del giornalista Andrew Ross Sorkin (che non è parente dell’Aaron Sorkin di West Wing e Social Network, a dispetto di quello che i dialoghi serratissimi e i palazzi del potere darebbero a pensare), il film di Curtis Hanson si regge tutto sul talento di uno stuolo di premi Oscar e su una ricostruzione incalzante, da political thriller, degli eventi e delle decisioni che hanno portato alla crisi più acuta dopo la Grande Depressione del 1929. Se i primi confermano tutti - da William Hurt a Paul Giamatti, da James Woods a Billy Crudup - l'efficacia del metodo da Actor's Studio nel “diventare” personaggi reali, è invece il metodo di scrittura cosiddetto walk and talk, basato sulla credibilità delle parole fitte e complicate degli organi decisionali, a risultare gravoso sull'economia narrativa. I continui innesti presi dai telegiornali locali o dalle conferenze stampa di Washington rappresentano gli unici momenti di respiro, di distensione, all'interno di un groviglio che concentra in poco più di un’ora di e mezzo il complesso meccanismo che soggiace all’intero neo-capitalismo finanziario. Hanson, da questo punto di vista, non fa molto per compensare la ripetitività e lo schematismo forzato delle scene di contrattazione verbale. E se a questo si somma che Too big to fail perde sia in termini di tempismo di cronaca che di efficacia narrativa contro il genere documentario, arrivando per ultimo dopo il partigiano Capitalism di Michael Moore e il chirurgico Inside Job di Charles Ferguson, si intuisce che anche la HBO, ogni tanto, sopravvaluta il proprio valore di mercato.

 
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view post Posted on 28/11/2011, 12:05     +1   -1

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The Devil's Advocate - L'avvocato del diavolo
Thriller, durata 144 minuti. USA 1997



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L'avvocato del diavolo è un film del 1997 diretto da Taylor Hackford.
Il titolo fa riferimento all'espressione idiomatica Avvocato del diavolo, ed il nome del personaggio interpretato da Al Pacino, John Milton, è quello dell'autore del poema Paradiso perduto. Il film include alcune allusioni minori all'opera di Milton, per esempio alla famosa citazione "meglio regnare all'Inferno, che servire in Paradiso" ("better to reign in Hell, than serve in Heaven,"), ed alla fine del film vengono descritti i gironi ardenti concentrici come nella Divina Commedia di Dante. Il film, inoltre, ha qualche somiglianza con il romanzo Quell'orribile forza di C. S. Lewis. Alcune scene sono state girate nell'appartamento del miliardario Donald Trump a New York. La sigla finale è Paint It, Black dei Rolling Stones.

La storia narra l'ascesa al successo di Kevin Lomax (Keanu Reeves), avvocato di successo in provincia, e della moglie Mary Ann (Charlize Theron). Lomax non ha mai perso una causa e, durante una pausa mentre difende un professore accusato di pedofilia, si reca ai servizi, dove immagina come sarebbe il suo futuro se difendesse il professore che lui sa essere colpevole. In questa anticipazione viene assunto dal potente studio legale Milton di New York. Qui conosce il proprietario dello studio stesso, John Milton (Al Pacino), un personaggio inquietante ma pieno di fascino, che gli assegnerà cause di omicidio ambigue e lo porterà verso una deriva personale che lo allontanerà dalla moglie e lo condurrà a pensare sempre più al proprio successo e a invaghirsi di un'altra donna (Connie Nielsen), mentre la moglie comincia a soffrire di turbe psichiche (paranoia, allucinazioni schizoidi) dopo un susseguirsi di strani e inquietanti eventi. Kevin non si sta rendendo conto che sta vendendo l'anima al diavolo, e non in senso metaforico. La popolosa e corrotta New York, dove un qualunque atto onesto o affettuoso sembra impensabile, è metafora di Babilonia, ed è costellata di ladri, assassini, stupratori, dalla faccia assolutamente rispettabile, perduti in un vortice di desiderio sessuale, droga e denaro. Kevin, dopo un finale tragico col suicidio della moglie, la scoperta della vera identità del padre (ovvero John Milton) e la presa di coscienza di quanti assassini e delinquenti abbia scagionato per "mestiere", finalmente avrà un confronto diretto col padre che altro non è che Satana in persona. Turbato da questa degenerazione degli avvenimeti abbandona la causa, condannando la sua promettente carriera.

 
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il Poltergeist
view post Posted on 28/11/2011, 17:48     +1   -1




un classico, grandissimo al pacino in questo film, come sempre d'altronde.
 
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view post Posted on 1/12/2011, 12:10     +1   -1

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A.C.A.B. Il Film
Drammatico - Dal 27 Gennaio al cinema



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Il film è tratto dall'omonimo romanzo di Carlo Bonini - edito in Italia da Einaudi -basato su una storia vera. “A.C.A.B.” è l'acronimo di "All cops are bastards" ("tutti i poliziotti sono bastardi") un motto che, partito dal movimento skinhead inglese degli anni Settanta, è diventato nel tempo un richiamo universale alla guerriglia nelle città, nelle strade, negli stadi.

Cobra (Piefrancesco Favino), Negro (Filippo Nigro) e Mazinga (Marco Giallini) sono tre “celerini bastardi”. “Celerini”, così si sentono, più che poliziotti. Sulla loro pelle hanno imparato ad essere bersaglio perché vivono immersi nella violenza. In una violenza che diventa lo specchio deformante di una società esasperata, di un mondo governato dall’odio che ha perso le regole e che loro vogliono far rispettare anche con l’uso spregiudicato della forza.

Nel momento forse più delicato delle loro esistenze, quando la vita privata arriva alla resa dei conti, incontrano “il futuro” in una giovane recluta, Adriano (Domenico Diele), appena aggregata al loro reparto.
L’educazione di Adriano alla legalità, all’ordine, all’applicazione anche violenta della legge è la lente per raccontare il controverso “reparto mobile” con un inedito sguardo dall’interno, sullo sfondo dei più sconcertanti episodi di violenza urbana accaduti in Italia negli ultimi anni, dal G8 di Genova fino alla morte di Gabriele Sandri.
 
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.BlackMamba®
view post Posted on 7/12/2011, 00:04     -1   +1   -1




Midnight in Paris

Commedia, durata 94 min. - USA, Spagna 2011

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Gil (sceneggiatore hollywoodiano con aspirazioni da scrittore) e la sua futura sposa Inez sono in vacanza a Parigi con i piuttosto invadenti genitori di lei. Gil è già stato nella Ville Lumiêre e ne è da sempre affascinato. Lo sarà ancor di più quando una sera, a mezzanotte, si troverà catapultato nella Parigi degli Anni Venti con tutto il suo fervore culturale. Farà in modo di prolungare il piacere degli incontri con Hemingway, Scott Fitzgerald, Picasso e tutto il milieu culturale del tempo cercando di fare in modo che il ‘miracolo' si ripeta ogni notte. Suscitando così i dubbi del futuro suocero.
Woody Allen ama Parigi sin dai tempi di Hello Pussycat e ce lo aveva ricordato anche con Tutti dicono I Love You. Nella sequenza di apertura fa alla città una dichiarazione d'amore visiva che ricorda l-ouverture di Manhattan senza parole. Ma anche qui c'è uno sceneggiatore/aspirante scrittore in agguato pronto a riempire lo schermo con il suo male di vivere ben celato dietro lo sguardo a tratti vitreo di Owen Wilson. Solo Woody poteva farci ‘sentire' in modo quasi tangibile la profonda verità di un ‘classico' francese che nella parata di personalità che il film ci presenta non compare: Antoine de Saint Exupery. Il quale ne “Il piccolo principe” fa dire al casellante che nessuno è felice per dove si trova. Il personaggio letterario verbalizzava il bisogno di cercare sempre nuovi luoghi in cui ricominciare a vivere. Il Gil alleniano vuole sfuggire dalla banalità dei nostri giorni ma trova dinanzi a sé altre persone che esistono in epoche che ai posteri sembreranno fulgide d'arte e di creazione di senso ma non altrettanto a chi le vive come presente.

Se il Roy di L'uomo dei tuoi sogni era solamente uno scrittore avido di successo Gil è affamato di quella cultura europea di cui da buon americano si sente privo. Ma ha lo sguardo costantemente rivolto all'indietro. Forse, sembra dirci Woody, ha ragione ma è comunque indispensabile uno sforzo costante per cercare nel presente le ragioni del vivere e del creare. A Gil Allen concede quella speranza che invece negava perentoriamente (e con ragione) a Roy. Ricordandoci (ancora una volta e con delle evidenti analogie con La rosa purpurea del Cairo) che nulla può consentirci di sfuggire a noi stessi e al nostro tempo e che forse (nonostante tutto) è bene così.

 
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Berny™
view post Posted on 7/12/2011, 00:51     +1   +1   -1




grande attore Owen Wilson
 
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507 replies since 28/12/2006, 01:57   3402 views
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